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martedì 22 luglio 2014

Buone Vacanze. A presto!


Siamo arrivati al momento di salutarci temporaneamente, sia chiaro solo TEMPORANEAMENTE, per le vacanze estive.
Dal 28 Marzo sono passati tanti giorni ed altrettanti post quotidiani, che voi cari amici avete dimostrate di apprezzare decisamente oltre le più rosee previsioni, dato che il contatore delle visite al blog ha già superato quota 2700.
Il nostro è un passatempo, ci diverte imparare notizie, curiosità e avvenimenti del passato e metterle ogni giorno a disposizione di chi ha voglia di dedicare un paio di minuti a leggerci. Sapere che ogni giorno qualcuno di voi, anche solo per curiosità clicca dal proprio pc o smartphone su questo blog ci gratifica.
Per questo vi RINGRAZIAMO tutti col cuore.
Come dicevo all'inizio oggi il blog va in ferie per circa un mesetto, ma dopo il 20 agosto riprenderemo a pieno regime e, anzi, per settembre, sono in cantiere anche alcune novità.
Dalle vacanze per noi della redazione sarebbe stato ovviamente impossibile scrivere un pezzo ogni giorno, ma per non lasciarvi soli del tutto il blog ogni giorno avrà comunque un aggiornamento, solo un link, una foto o comunque un qualcuno che possa stimolare la vostra curiosità e magari farvi cercare notizie sull'avvenimento quotidiano da altre fonti.
In attesa di ritrovarci a pieno regime tra un mesetto auguro a tutti voi BUONE VACANZE e vi ringrazio ancora a nome di tutta la redazione di Mensistoria!
La Redazione 
(Caterina Valcarenghi, Luca Fontana, Marco Fontana, Mimma Sternativo)

lunedì 21 luglio 2014

L'uomo sulla Luna (21 Luglio 1969)

"Questo è un piccolo passo per l'uomo, ma un gigantesco balzo per l'umanità" (Neil Armstrong)
Una delle frasi più famose della storia, pronunciata quando qui in Italia sorgeva l'alba del 21 Luglio 1969 (22.56 del 20 Luglio negli Stati Uniti) dal primo uomo che ebbe l'onore di poggiare il proprio piede sulla Luna.
La Luna, l'obiettivo di studi e ricerche da parte di Usa e Urss per diversi anni, una vera corsa spaziale a chi riuscisse ad arrivare prima. Vinsero gli Usa.
Quando Neil Armstrong fece il primo passo sulla Luna tutto il Mondo era sintonizzato davanti alla tv.
Armstrong, Collins e Aldrin Jr. partirono quattro giorni dalla base Kennedy in Florida a bordo dell'Apollo 11 e quando il LEM (modulo lunare) atterrò sulla Luna attesero quattro ore prima che Houston diede l'ok per scendere. Prima Armstrong, dopo un po' Aldrin.
Un sogno. Un uomo che fluttua sulla Luna e issa una bandiera a Stelle e Strisce. Impensabile fino a pochi anni prima.
Ancora oggi sulla Luna sventola la bandiera americana ed è fissata una targa che dice: "Qui uomini del pianeta Terra per la prima volta scesero sul suolo lunare, 20 luglio 1969, in nome di tutta l'Umanita".
Nel corso degli anni si sono sviluppate teorie a proposito di un complotto lunare, sostenenti che il programma Apollo non abbia mai realmente portato l'uomo sulla Luna, ma che gli allunaggi sinao stati ricostruiti in studio dalla NASA su ordine del governo degli Stati Uniti. I complottisti esistono sempre, spesso magari hanno ragione, ma in questo caso è bello pensare che il 21 Luglio 1969 sia davvero stato fatto un "grande balzo per l'umanità".
Marco Fontana

domenica 20 luglio 2014

La Tana del Lupo (20 Luglio 1944)

E’ quasi mezzogiorno del 20 Luglio 1944. Siamo a Rastenburg nella Prussia Orientale. E’ molto caldo. Il momento fatale e sospirato sta per arrivare e al colonnello Claus von Stauffenberg sudano le mani. Sarà lui ad uccidere Adolf Hitler. Sarà lui, da li a pochi minuti, a mettere in pratica l'attentato che porrà fine all’agonia della Germania ormai sconfitta e rovescerà il regime. Sarà lui l’esecutore materiale di quel gesto necessario, troppe volte evocato, troppe volte non portato a termine negli anni e nei mesi precedenti. Una scelta maturata nel tempo, una scelta complicata, pensò Claus, per un militare pluridecorato come lui. Un conto è opporsi ad un dittatore che sta portando il Paese alla rovina, ma un soldato deve eseguire gli ordini, non può tradire. Ma a tutto c’è un limite e Claus questo limite lo aveva oltrepassato da tempo. Così come la misura era colma per gli alti militari e politici che da mesi avevano organizzato quel complotto e che lo avevano quindi reclutato tra loro. Il generale Olbricht, il colonnello Henning von Treskow, il feldmaresciallo Erwin von Witzleben, il generale a riposo Ludwig Beck, il dottor Carl Friedrich Goerdeler e molti altri. Decine, centinaia di personalità tedesche. La scelta su chi dovesse compiere materialmente l'attentato cadde proprio sul colonnello von Stauffenberg in quanto egli aveva ottime opportunità di avvicinare il Führer durante le riunioni quasi quotidiane che si svolgevano nel protetto quartier generale della “Wolfsschanze”, la Tana del Lupo, disperso appunto tra i boschi di Rastenburg. 
Così toccava a lui. Ci avevano già provato in molti. Ci aveva già provato perfino lui pochi giorni prima. Ma Hitler sembrava avvolto da una protezione misteriosamente magica, una fortuna quasi mistica. La settimana precedente Claus partecipò ad una conferenza alla presenza del Furher portando una bomba nella sua valigetta, ma a causa di contrasti tra i cospiratori, che ritenevano dovessero essere contemporaneamente eliminati Hermann Göring ed Heinrich Himmler, l'attentato non venne realizzato all’ultimo istante a causa della mancata presenza di quest'ultimo. Quando un impaziente von Stauffenberg il 15 luglio si recò nuovamente alla “Tana del Lupo”, la decisione di uccidere Hitler insieme ad Himmler era stata abbandonata, ed il piano consisteva nel posizionare la valigetta con la bomba dotata di un innesco a tempo all'interno del bunker di cemento dove usualmente si tenevano le riunioni, uscire con un pretesto e attendere l'esplosione per poi fare ritorno a Berlino con tutte le teoriche conseguenze del caso. Anche in questa occasione l'attentato non poté essere realizzato in quanto Hitler venne chiamato accidentalmente fuori dalla stanza lasciando Claus di sasso. 
Ma ora Claus von Stauffenberg è nuovamente sul luogo pronto ad agire ed innescare l’operazione Valchiria, che sarebbe partita un minuto dopo la certezza della morte di Hitler. L’operazione Valchiria era un piano ideato dallo stesso regime al fine di proteggersi con una mobilitazione dell’esercito territoriale in caso di rivolta interna. I cospiratori, una volta morto Hitler, avrebbero assunto il controllo delle posizioni nevralgiche utilizzato legalmente quello stesso piano opportunamente modificato per rovesciare il regime stesso, mobilitando l'esercito territoriale non contro la minaccia preventivata ma viceversa contro le SS ed i vertici del partito, assumendo poi il potere. Ma tutto questo sarebbe stato inutile e non realizzabile se Claus von Stauffenberg avesse fallito, di li a pochi minuti. Claus era nervoso. “Cosa sarebbe potuto andare storto questa volta?” si chiese. Claus era giunto nuovamente alla Wolfsschanze da qualche ora in compagnia del tenente Werner von Haeften e del generale Hellmuth Stieff; sia von Stauffenberg che von Haeften portavano una bomba nelle rispettive borse. La riunione in cui avrebbe dovuto essere presente il Führer era in programma per le 13.00 ed i due ufficiali si recano di buon mattino a conferire con il generale Fellgiebel che insieme al generale Stieff avrebbe dovuto trasmettere la notizia della morte di Hitler e quindi bloccare qualunque comunicazione verso l'esterno, per dare tempo ai cospiratori di avviare l'operazione Valchiria. E’ passato da poco mezzogiorno e le mani di Claus continuano ad essere sudate. Si reca dal feldmaresciallo Wilhelm Keitel per sottoporgli il contenuto della sua relazione e, dopo averne ottenuto l'approvazione, viene informato dell'anticipo della riunione alle 12.30 a causa dell'arrivo di Benito Mussolini che sarebbe giunto in visita nel pomeriggio. Primo intoppo. Il cambiamento di orario rende necessario accelerare l'operazione di innesco degli ordigni. Nella contingenza di quei momenti di assoluto nervosismo Von Stauffenberg si apparta con Stieff ma i due riescono ad innescare una sola delle due bombe interrotti da un sergente che, bussando alla porta, li sollecita di sbrigarsi. La riunione è cominciata. Una bomba, una valigetta dunque. Non si poteva fallire. Il colonnello Von Stauffenberg esce con la borsa sotto il braccio diretto alla fatale riunione. La riunione a causa del caldo non si sarebbe svolta in un bunker ma una sala riunioni di un edificio come tanti in mattoni e legno con finestre tutte aperte per far entrare un po’ d’aria. “Accidenti” pensa Von Stauffenberg, “questo potrebbe assorbire gli effetti dell’esplosione, la carica potrebbe non essere sufficiente”, ma a quel punto era impossibile fermarsi. All'interno dell'edificio, il colonnello chiede di essere posizionato vicino al Führer a causa dei suoi problemi di udito; La valigetta viene posizionata sotto il tavolo, ma, altro intoppo, sembra che il colonnello Heinz Brandt, che era in piedi accanto a Hitler, infastidito dalla presenza di quella borsa accanto a se, la sposta con il piede dietro ad una gamba del massiccio tavolo di legno. Un gesto semplice, un gesto che probabilmente ha mutato la storia. Quel giorno le parole deliranti del Furher e quelle asservite dei suoi sottoposti devono essere sembrati come degli indistinti ronzii a Claus. I minuti trascorrevano lenti. Impossibile resistere oltre. Era giunto il momento prefissato. Dopo poco l’impaziente von Stauffenberg domanda all'attendente di Keitel di potere uscire per fare una telefonata ed i due lasciano insieme la stanza e, una volta giunti all'apparecchio telefonico, von Stauffenberg chiede di essere messo in comunicazione con il generale Fellgiebel; l'attendente lascia il colonnello che finge di comporre la telefonata ed esce dall’edificio.
Mentre von Stauffenberg percorre a piedi i circa trecento metri che lo separano dall'automobile che lo attende, il generale Heusinger sta terminando la sua relazione “se non facciamo ritirare immediatamente il nostro gruppo di armate che si trova accanto al lago Peipus, una catastrofe...”. Non ci riesce. Viene interrotto dall'esplosione che avviene esattamente alle 12.42.
Dalle labbra di Claus esce un ghigno di soddisfazione. Hitler è morto. Per forza, Un esplosione fragorosa. Nessuno sarebbe potuto scampare ad un botto simile. Il colonnello, insieme al tenente von Haeften, sale in macchina. In realtà nella confusione e nella fretta, non era riuscito a vedere nulla di quanto fosse realmente accaduto. Le finestre aperte, la gamba del tavolo, una bomba invece che due. Avrebbe dovuto pensarci Claus. 
Alle 12.44 Von Stauffenberg esce dalla Tana del Lupo con uno stratagemma e s'imbarca sull'aereo messogli a disposizione dal generale Eduard Wagner per fare ritorno a Berlino. Dopo l'esplosione, da Rastenburg il generale Fellgiebel doveva informare Berlino dell'accaduto. Da quell’istante iniziano una serie di sconcertati episodi e sfortunate coincidenze che furono letali per Claus e tutti i congiuranti. L’operazione Valchiria parte, ma con fatale ritardo. La confusione delle informazioni fu tale che la milizia territoriale non viene messa in movimento fino all'arrivo a Berlino di von Stauffenberg. Troppo tardi. Claus non si perde d’animo e da il via al piano comunicando a tutti i distretti la morte del Führer, nonostante il rifiuto del generale Fromm a collaborare. Il generale Fromm, quello che sapeva del complotto, ma non si era ancora schierato apertamente. In attesa di vedere la piega presa dagli eventi. E la piega presa dagli eventi avrebbe condotto Claus e tutti gli altri congiuranti a fallire ed a cadere tra le braccia della terribile vendetta del Furher. Perché alla fine dei conti Hitler non era morto e, scampato pur ferito all’attentato, aveva ripreso il controllo della situazione. Perché ancora una volta la condizione necessaria per rovesciare il regime non si era verificata. Ancora una volta la fortuna aveva aiutato Adolf Hitler.
Luca Fontana

sabato 19 luglio 2014

La strage di via D'Amelio (19 Luglio 1992)

Il 19 Luglio 1992 alle 16.58 Palermo si avvolse di fumo, cenere, urla, terrore e sangue.
Sono passati solo 57 giorni dalla morte di Giovanni Falcone allo svincolo di Capaci, la Mafia torna a colpire. Sempre a Palermo, sempre un magistrato.
Stavolta è il turno di Paolo Borsellino.
Un esplosione, causata da 100 kg nascosti in una Fiat 126 rubata e parcheggiata in via D’Amelio, porterà via la vita a Borsellino e cinque agenti della scorta.
Il Magistrato quella domenica, come tutte le altre se il lavoro glielo permetteva, stava andando a trovare la madre.
Dopo la morte del grande amico Falcone, Borsellino sapeva di essere “il prossimo”. Lo confidava ai famigliari e alle persone più care. Era conscio del fatto che ogni giorno quando usciva per andare al lavoro, poteva essere l’ultimo, ma viveva questa paura con grande coraggio. Non si tirò mai indietro, non penso mai di mollare, dopo la strage di Capaci, anzi, intensificò ancora di più i suoi sforzi perché inchiodare i responsabili della morte di un grande amico poteva anche valere la propria vita.
La sua morte, con quella di Falcone, cambiarono drasticamente la storia italiana. Di fatto, queste stragi unite a tangentopoli, portarono alla fine della cosiddetta Prima Repubblica.
Noi dobbiamo ringraziare Paolo Borsellino, deve essere un esempio per le generazioni future. Un uomo che ha dato la vita per il proprio paese e per ciò in cui credeva. Lui, come Falcone, è uno dei pochi veri eroi che la nostra storia conosce.
“Io accetto, ho sempre accettato più che il rischio, la condizione, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall'inizio che dovevo correre questi pericoli.
La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in, come viene ritenuto, in... in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me.
E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro.” (Paolo Borsellino pochi giorni prima della strage di via D’Amelio)
Marco Fontana

venerdì 18 luglio 2014

Il Grande Incendio di Roma (18 Luglio 64 d.C.)

Nella notte del 18 Luglio dell’anno 64 d.C. iniziarono nove giorni di terrore e distruzione per la città di Roma, i giorni del Grande Incendio.
Forse doloso o forse no, l’incendio divampò nella zona del Circo Massimo e si propagò in tutta la città radendo al suolo tre quartieri e danneggiando, anche seriamente, gli altri undici che formavano la città.
Persero la vita migliaia di persone, tantissimi restarono senza una casa ed ingente fu anche la perdita del patrimonio architettonico.
All’epoca, a causa della tipologia di materiali usati nella costruzione delle case, gli incendi si verificavano con frequenza, ma di solito venivano domati in fretta dai “vigiles”, stavolta però forse complice il vento forte, l’incendio dilagò molto velocemente arrivando fino alle periferie, distruggendo anche la residenza di Nerone, l’allora Imperatore.
Nella tradizione tende ad attribuire le colpe dell’incendio a Nerone stesso, che avrebbe voluto cambiare radicalmente sotto il suo impero l’urbanistica della città e voleva uno spazio abbondante su cui costruire la sua nuova Domus. Non si può escludere, conoscendo la follia dell’Imperatore in questione, ma non si hanno nemmeno prove certe di questo.
Una seconda possibilità vede colpevolizzati i Cristiani, che infatti furono accusati e condannati, ma anche questa ipotesi non è comprovata.
Studi più recenti sugli incendi hanno smontato la teoria che l’Incendio di Roma non potesse essere accidentale, quindi magari fu proprio così, una serie di sfortune che distrussero la più bella città del Mondo, ma è più affascinante credere che l’Imperatore canticchiasse sornione vedendo Roma ardere.
Sequitur clades, forte an dolo principis incertum, nam utrumque auctores prodidere / Seguì un disastro, non si sa se dovuto al caso
oppure al dolo del principe, poiché gli storici interpretarono la cosa nell'uno e nell'altro modo (Tacito)
Marco Fontana

giovedì 17 luglio 2014

La Conferenza di Postdam (17 Luglio 1945)

Lo splendido parco all'inglese che da decenni si stagliava a nord di Postdam, poco distante da Berlino, deve essere apparso agli occhi dell’Imperatore Guglielmo II come il luogo ideale per un bel regalo da donare al figlio Guglielmo, che fantasia, e alla sua consorte Cecilia. Siamo nel 1914 quando il presentino prende corpo tramutandosi in un castello. L’imperatore fece quindi edificare il castello Cecilienhof, nome chiaramente ispirato alla fortunata fanciulla, un complesso stupendo che somiglia moltissimo ad una residenza di campagna Inglese, molto elegante e particolare che si fonde perfettamente con il magnifico giardino. Ho avuto la fortuna di visitarlo anni addietro e ne sono rimasto molto colpito, così come non possono non impressionare le ben 176 stanze che compongono il castello. Poco ci importa dei viaggi dello stralunato giornalista, penserete voi. E fortunati i nobili crucchi se potevano usufruire di qualcosa in più di un trilocale. Passi per la mia presenza inutile in loco, ma le stanze no. Quelle sono importanti, almeno alcune. Stanze che ospitarono il 17 Luglio del 1945 i potenti del mondo usciti vincitori dalla seconda guerra mondiale, peraltro non ancora conclusa. Questo il buon Guglielmo, non avrebbe proprio potuto immaginarlo. La guerra non era ancora terminata, dicevamo, ma Hitler era morto e la Germania sconfitta. A Postdam, in quei giorni, si sarebbe tenuta la storica Conferenza tra i vincitori che, è facilmente comprensibile, avrebbero dovuto prendere decisioni fondamentali per il mondo futuro. Quel che oggi definiamo un nuovo ordine mondiale. Una conferenza per stabilire le sorti della Germania e dell’Europa. All’ordine del giorno la gestione e il governo del territorio tedesco all’ indomani della liberazione, il risarcimento dei danni di guerra, i confini con la Polonia e con L’unione Sovietica e la situazione generale dell’Europa. Questi alcuni dei temi di discussione che hanno agitato le notti dei partecipanti. Il primo ministro britannico Winston Churchill sostituito dopo poco da Clement Attlee che lo sconfisse alle elezioni, il presidente degli Stati Uniti Harry Truman e il leader sovietico Stalin. Fu varata la costituzione di un direttorio comprensivo anche di altri due paesi, Cina e Francia e si decise che Il territorio tedesco e Berlino dovessero essere divisi in quattro zone d’influenza militare e politica. Una statunitense, una britannica, una sovietica e una francese. Nell'immaginario storico collettivo e nella memoria la foto di Churchill, Truman e Stalin è legata più alla conferenza di Jalta, considerata più importante ed avvenuta pochi mesi prima e di cui, di fatto, quella di Postdam è logica continuazione. In verità io non sottovaluterei il valore storico di quei giorni d’estate in cui i tre leader furono ospitati dalle accoglienti mura del castello di Cecilienhof in quanto se è vero che nessuna delle decisioni prese sconvolse il corso di un sentiero già bel tracciato a Jalta, è anche vero che la conferenza di Postdam di fatto sigillò gli accordi, fu quella che si svolse a giochi praticamente fatti, pur dovendo annoverare tra quelli ancora da fare il dramma della bomba atomica e la resa del Giappone. Ecco perché possiamo avere buon gioco nel considerare quel incontro come il genitore di un periodo lungo e gelido come il nome stesso di “guerra fredda” ci lascia immaginare. Fu proprio sul terreno di quelle decisioni riguardanti la divisione politica della Germania sconfitta che germogliarono i contrasti mal celati, i rancori reciproci, che portarono con il tempo alla divisione del mondo in due blocchi contrapposti con le conseguenze che tutti ci ricordiamo. Forse era inevitabile. Forse no. Ma questa è un’altra storia. Per oggi fermiamoci al 17 Luglio del 1945 ad ammirare quel simpatico castello, tanto somigliante ad una casa di campagna, ed il verde parco che lo circonda. 
Luca Fontana

mercoledì 16 luglio 2014

Il Maracanazo (16 Luglio 1950)

Il 16 Luglio 1950 a Rio de Janeiro avvenne l’imponderabile. Il “Maracanazo”.
Jules Rimet, fondatore del moderno Campionato Mondiale di calcio disse a proposito: “Era tutto previsto, tranne la vittoria dell’Uruguay”.
Quando nel 1946 l’organizzazione del futuro Mondiale fu assegnata al Brasile, un intero paese si vedeva già Campione del Mondo. Quel titolo, sfuggito di mano nelle edizioni precedenti, stavolta non poteva scappare.
Una squadra forte che poteva contare sul caloroso apporto di un intero popolo. Era fatta.
Flavio Costa, commissario tecnico della nazionale brasiliana doveva solo mettere in campo 11 giocatori poi ci avrebbero pensato loro. Barbosa, Friaca, Zizinho, Jair, Chico, Ademir, solo alcuni nomi delle stelle che componevano la Selecao.
All’epoca il Mondiale era organizzato in maniera differente. Due gironi, uno iniziale e uno finale al termine del quale chi era avanti in classifica poteva alzare la Coppa del Mondo.
Il Brasile dominò tutte le partite presentandosi all’ultima in testa alla classifica e con una marea di reti segnate. Dietro di lui si stagliava l’Uruguay, avversario proprio nell’ultimo incontro.
Gli uruguagi dovevano essere vittime sacrificali, nettamente inferiori di organico e contro tutto il Maracana, tempio del calcio brasiliano, ma aritmeticamente ancora in corsa per il titolo, ci cedettero fino alla fine.
Tutto il Brasile si considerava già campione prima ancora di scendere in campo.
Alle ore 15 del 16 Luglio ci fu il fischio d’inizio. Novanta minuti separavano la Selecao dalla gloria, spinti da quasi 200000 tifosi allo stadio e diversi milioni fuori, il Brasile andò in vantaggio ad inizio ripresa con Friaca. Giubilo. E’ fatta, siamo Campeon.
L’Uruguay doveva segnare due gol perché il pareggio avrebbe comunque consegnato la Coppa al Brasile.
I due gol arrivarono.
Silenzio sul Maracana. Al fischio finale Uruguay Campione del Mondo in casa del Brasile e un intero popolo caduto nello sconforto e nella disperazione.
Decine di tifosi colti da malore, diversi suicidi, cambiato il programma di premiazione. Un vero e proprio dramma. La nazionale brasiliana dopo la bruciante sconfitta cambiò la propria maglia, non più bianca, ma sarebbe diventata verdeoro.
64 anni dopo la Selecao avrà la possibilità di riscatto davanti al proprio popolo, ma i panzer tedeschi hanno detto no.
Dopo il Maracanazo, proprio pochi giorni fa, i Verdeoro verranno sconfitti con l’umiliante risultato di 7-1 nella semifinale del Mondiale appena conclusosi, stavolta nella storia, probabilmente, resterà il nome di Mineirazo.
Marco Fontana

martedì 15 luglio 2014

Il Manifesto della Razza (15 Luglio 1938)

Manifesto della razza, fu pubblicato, con il titolo “Il fascismo e i problemi della razza” il 15 luglio 1938 su Il Giornale d’Italia e fu ripreso nel numero del 5 agosto 1938 della rivista La difesa della razza, diretta da T. Interlandi e voluta da Mussolini in persona.
L'atto di nascita ufficiale della scienza razzista in Italia e' probabilmente questo Manifesto.
Il trattato è un breve testo che consta di 10 punti.
Nel tentativo forse, di voler tastare la risposta della società all’atto della pubblicazione risultava orfano di firma, ma dopo pochi giorni fu riconosciuto e sottoscritto da sei professori universitari affermati e quattro loro giovani allievi. 
Pare in realtà essere stato redatto da Guido Landra un giovane assistente dell'Istituto di Antropologia dell'Universita' di Roma.
Tra i sostenitori del manifesto abbiamo pure due scienziati medici Nicola Pende e Sabato Visco,che convinti che le teorie razziste biologiche fossero inapplicabili alla realta' demografica italiana, cercarono di costruire una teoria definita poi “nazional-razzismo” nella quale il concetto di razza equivaleva essenzialmente a quello di stirpe. Gli italiani risultavano un gruppo relativamente omogeneo perché aventi una discendenza comune e una stessa cultura. 
In altre parole col nazional-razzismo veniva negata la teoria per cui secondo Mussolini e i suoi seguaci,gli italiani avessero affinita' razziale con i tedeschi mentre differivano biologicamente dai francesi e dagli inglesi; ma proprio per questo non fu particolarmente gradita alla politica del regime.
In pratica il razzismo fascista aveva tre punti focali: 
1) Le razze umane esistono. 
8) E' necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra.
9) Gli ebrei non appartengono alla razza italiana.
Nelle colonie le leggi razziali miravano ad impedire i matrimoni misti e la nazionalizzazione delle etnie residenti nei territori conquistati, che dovevano rimanere asservite e non diventare membri della comunita' nazionale. In terzo luogo il razzismo doveva rafforzare la "razza" italica sia nello spirito, infondendo in essa una consapevolezza che in precedenza non possedeva, che nel corpo mediante le varie istituzioni all'uopo preposte.
Curioso è che poco prima nel 1932, intervistato da Emil Ludwig, Mussolini aveva dichiarato: 
"Naturalmente non esiste piu' una razza pura, nemmeno quella ebrea. Ma appunto da felici mescolanze deriva spesso forza e bellezza di una nazione. Razza: questo e' un sentimento, non una realta' ..." ma la Storia si sa riserva sempre sorprese.
Mimma Sternativo

lunedì 14 luglio 2014

La presa della Bastiglia (17 Luglio 1789)

E’ difficile scrivere del 14 Luglio 1789 perché è una data che ha cambiato il mondo. Martedì 14 luglio 1789 i parigini, ormai stremati e disperati, assaltano la Bastiglia, simbolo dell’Ancien Régime, liberando 7 prigionieri (4 falsari, 2 malati di mente e un libertino). Ha inizio così la rivoluzione francese. Perché è così difficile scrivere di questo avvenimento? La storia è piena di insurrezioni, rivoluzioni, guerre e morti; eppure parlare della presa della Bastiglia vuol dire parlare di qualcosa di più di un assalto a una prigione. Quanti di voi sono stati a Parigi? Io ci sono stata 11 anni fa; la Bastiglia non esiste più, totalmente smantellata, esistono solo delle pietre che mostrano il perimetro di quella che, una volta, era la prigione simbolo della monarchia assoluta francese, quella del Re Sole, di Marie Antoinette, di Luigi XVI; eppure quando scendi a Place de la Bastille e vedi sventolare la bandiera francese non puoi fare a meno di pensare alla grandezza della rivoluzione francese: un popolo che si ribella a un sovrano assoluto e da vita alla prima democrazia moderna del mondo. Certo, più che una realtà, in fondo, era un’utopia: la rivoluzione infatti sfocia poi nel terrore e, con la democrazia, la situazione per il popolo in realtà non cambia, ma le idee di “Liberté, ègalité, fraternité” quelle si che hanno cambiato il mondo. Per la prima volta il popolo combatteva per se stesso, per affermare che tutti gli uomini nascono uguali, con gli stessi diritti, e sono liberi. Per noi, nati nel XX secolo nel mondo occidentale, la libertà e l’uguaglianza tra le persone sono concetti basilari, ma non è così in tutto il mondo, e non è sempre stato così. E’ dalla rivoluzione francese chela gente inizia a pensare, a capire; certo, come tutte le guerre, anche la rivoluzione è stata giostrata da qualcuno che voleva il potere, non credo che un contadino potesse partorire le idee simbolo della rivoluzione, semplicemente perché l’ignoranza è la miglior arma dei regimi totalitari, e, all’epoca della monarchia assoluta, l’ignoranza dilagava. Ma nonostante queste ovvie affermazioni, il 14 luglio resta la giornata memorabile della libertà: nonostante l’ignoranza, la superstizione e la paura, il popolo, la gente comune, esattamente come me e te che stai leggendo, è scesa in piazza per affermare i suoi diritti; per la prima volta nella storia si affermava che tutti hanno dei diritti. Senza la presa della Bastiglia, non ci sarebbe stata la rivoluzione francese, non quella russa e forse oggi noi non saremmo liberi.. E’ difficile parlare della presa della Bastiglia, ecco perché lascio la parola a chi ha davvero vissuto questo grande grande cambiamento.. e buona festa della libertà!

Allons enfants de la Patrie, Le jour de gloire est arrivé! Contre nous de la tyrannie, L'étendard sanglant est levé! L'étendard sanglant est levé! Entendez-vous dans les campagnes Mugir ces féroces soldats? Ils viennent jusque dans nos bras Egorger nos fils et nos compagnes! 
Refrain 
Aux armes, citoyens! Formez vos bataillons! Marchons! Marchons! Qu'un sang impur Abreuve nos sillons! Que veut cette horde d'esclaves, De traîtres, de rois conjurés? 
Pour qui ces ignobles entraves, Ces fers dès longtemps préparés? 
Ces fers dès longtemps préparés? Français, pour nous, ah! Quel outrage! 
Quels transports il doit exciter! C'est nous qu'on ose méditer De rendre à l'antique esclavage! (au Refrain) 
Quoi! Ces cohortes étrangères Feraient la loi dans nos foyers! Quoi! Ces phalanges mercenaires Terrasseraient nos fiers guerriers! Terrasseraient nos fiers guerriers! Grand Dieu! Par des mains enchaînées Nos fronts sous le joug se ploieraient! De vils despotes deviendraient Les maîtres de nos destinées! (au Refrain) 
Tremblez, tyrans et vous perfides, L'opprobre de tous les partis, Tremblez! Vos projets parricides Vont enfin recevoir leurs prix! Vont enfin recevoir leurs prix! Tout est soldat pour vous combattre, S'ils tombent, nos jeunes héros, La terre en produit de nouveaux, Contre vous tout prêts à se battre! (au Refrain) 
Français, en guerriers magnanimes, Portez ou retenez vos coups! Epargnez ces tristes victimes, A regret s'armant contre nous. A regret s'armant contre nous. Mais ces despotes sanguinaires, Mais ces complices de Bouillé, Tous ces tigres qui, sans pitié, Déchirent le sein de leur mère! (au Refrain) 
Amour sacré de la Patrie, Conduis, soutiens nos bras vengeurs! Liberté, Liberté chérie, Combats avec tes défenseurs! 
Combats avec tes défenseurs! Sous nos drapeaux, que la victoire Accoure à tes mâles accents! Que tes ennemis expirants Voient ton triomphe et notre gloire! (au Refrain) 
Nous entrerons dans la carrière Quand nos aînés n'y seront plus; Nous y trouverons leur poussière Et la trace de leurs vertus. Et la trace de leurs vertus. Bien moins jaloux de leur survivre Que de partager leur cercueil, Nous aurons le sublime orgueil De les venger ou de les suivre! (au Refrain)

Caterina Valcarenghi

domenica 13 luglio 2014

Nasce Erno Rubik (13 Luglio 1944)

Chi di noi non si è mai cimentato nella soluzione del rompicapo colorato più famoso del mondo?
Chi di noi non ha perso qualche ora della sua vita cercando di posizionare i 54 quadrati del cubo di Rubik in modo da avere le sei facce tutte ognuna di un unico colore?
Questa semplice ma complicato giochino lo dobbiamo a Erno Rubik, scultore, architetto e designer ungherese nato il 13 Luglio 1944 a Budapest.
Diventerà famoso in tutto il mondo per l’omonimo cubo e per altri giochi di strategia e sarà l’uomo più ricco d’Ungheria dopo il boom del Cubo di Rubik che diverrà una vera e propria mania, il gioco più venduto dal 1974 quando il geniale Erno lo inventò.
Tutti conoscono il cubo, ma pochi conosco il suo inventore che oggi compie 70 anni.
Auguri Erno!!
Marco Fontana

sabato 12 luglio 2014

L'esordio dei Rolling Stones (12 Luglio 1962)


Il 12 Luglio 1962 quattro ragazzi si esibirono al Marquee Club di Londra, in Oxford Street. Era la loro prima esibizione live.
Lewis Brian Hopkin Jones, Michael Philip Jagger, Keith Richards, William George Perks, Charles Robert Watts salirono sul palco col nome di “pietre rotolanti”, ma nemmeno loro nei più recondite sogni potevano immaginarsi di cambiare volto alla musica attingendo dal rock’n’roll e dal blues.
Quella sera al Marquee Club doveva, come ogni giovedì, esibirsi la Blues Incorporated del chitarrista Alexis Korner, ma un impegno imprevisto (partecipazione a trasmissione della BBC) fece si che si creò l’opportunità per una nuova band che scelse il proprio nome “Rolling Stones” solo la sera prima.
Sfonderanno subito e diventeranno i rivali dei Beatles. I Rolling Stones saranno soprannominati “brutti, sporchi e cattivi” proprio in contrapposizione agli “scarafaggi” che davano di loro un’immagine più pulita. I testi dei Rolling Stones molto più aggressivi con chiari riferimenti al sesso e all’uso di droghe.
Sono passati 52 anni da quel giorno, ormai sono “vecchietti”, ma ancora i Rolling Stones sono capaci di riempire stadi e di esaltare i loro fan proprio come una volta.
“Va benissimo lasciarsi andare, finché resti nella condizione in cui puoi riuscire a tornare indietro.” (Mick Jagger)
Marco Fontana

venerdì 11 luglio 2014

Il Duello (11 Luglio 1804)

Risale ad Aristotele la prima definizione di “politica”. L’amministrazione delle “polis”, ossia della città, alla quale tutti dovevano contribuire ricercando come obiettivo ultimo il raggiungimento del bene comune. Sono passati tanti secoli ed lo stesso concetto di politica è molto mutato essendosi scontrato con le bassezze della natura umana, ma anche ripensando al significato originale ci riesce difficile immaginare possibile come sublimazione di una perenne battaglia politica, un vero e proprio duello rusticano. Un colpo di pistola come estrema soluzione. Non lo avrebbe potuto immaginare Aristotele, ma nemmeno altre esimie personalità del settore come Machiavelli, Hobbes e Montesquieu. Invece è quello che accadde il giorno 11 Luglio del 1804 vicino a New York. Un duello a colpi di revolver in cui non furono coinvolti loschi figuri di mezza tacca e nemmeno strani personaggi dediti all’intrigo ed al malaffare. A sfidarsi furono due uomini che hanno fatto la storia a stelle e strisce. Aaron Burr e Alexander Hamilton. Il primo era il vice Presidente in carica al tempo di Thomas Jefferson ed il secondo, considerato uno dei padri fondatori degli Stati Uniti D’America, uomo di grande influenza pur ritiratosi dalla vita politica da qualche anno, era stato leader del partito Federalista, ministro del Tesoro e tuttora si staglia, con il suo volto elegante, sopra i biglietti da dieci dollari. Le carriere e le umane vicende di entrambi non sono storie raccontabili in poche timide righe, ma vi basti sapere che i due erano tipi ben tosti. Nel caso di Burr, sanguigno vice presidente degli Stati Uniti, anche un po’ permalosi. Le traversie politiche si intrecciarono come in una inestricabile matassa con piccoli e grandi rancori personali da lavare con il sangue. Passi lo scontro politico, a maggior ragione in un periodo storico non certo di poco rilievo, ma l’insulto personale quello mai. Hamilton usò ripetutamente nei confronti di Burr espressioni più che colorite, anche in ambiti istituzionali, e quest’ultimo, per farsi giustizia, non trovò niente di meglio che sfidare l’ex tesoriere in un duello con una calda arma da fuoco. Il New Jersey era zona piuttosto permissiva a riguardo e così l’invito del suscettibile Burr arrivò puntuale sull’altra sponda dell’Hudson, in quanto a New York i duelli non erano ammessi. Hamilton si recò sul luogo convenuto per l'incontro alle prime luci dell’alba. L’ultima per i suoi occhi. La leggenda narra, infatti, che Hamilton si rifiutò di estrarre l' arma ma il vicepresidente, accecato dal rancore, fece fuoco ugualmente colpendo a morte l'avversario. Insomma tra i due non scorreva buon sangue, ma buon sangue scorse a fiotti quella mattina. Se in siffatta, truculenta maniera si spense la vita di un uomo politico così importante ed in fondo integerrimo, a causa di qualche insulto di troppo, ci domandiamo, con estrema timidezza e con un pizzico di rammarico, quali sarebbero i risultati utilizzando pari metodi per dipanare le basse, infime, grette, diatribe della nostrana politica. E, mi perdonerete, anche il solo immaginare alcuni dei conosciuti figuri che popolano l’italico mondo sfidarsi a duello al fine di un acceso dibattito televisivo, mi fa scappare una sana risata.
Luca Fontana

giovedì 10 luglio 2014

La Francia di Vichy (10 Luglio 1940)

“Travail, Famille, Patrie” (Lavoro, Famiglia, Patria) questo era il motto della Francia di Vichy che nacque ufficialmente il 10 Luglio 1940.
Per più di quattro anni la Francia era divisa in due. Una zona occupata dai Nazisti e l’altra falsamente libera dai Nazisti.
Dopo l’occupazione tedesca del paese avvenuta in Giugno, con la caduta della Linea Maginot, il governo francese iniziò a trattare l’armistizio. Fu il Presidente del Consiglio eletto il 16 Giugno, Philippe Petain, che trattò con il Reich, che propose una sorta di burletta, accettata dal Presidente e votata, con molte polemiche e diverse irregolarità dal Parlamento.
La Francia veniva tagliata in due. La parte settentrionale occupata direttamente dai Nazisti, quella meridionale, ad eccetto della zona di Mentone che venne ceduta all’Italia, sotto il potere di un governo fantoccio, satellite del Terzo Reich: la Francia di Vichy.
Annessa a questo nuovo “Stato” c’erano anche alcune colonie storiche dell’impero francese.
Uno Stato con una Costituzione scritta, ma mai promulgata, in cui Petain instaurò in breve tempo un vero e proprio regime appoggiato da fascisti, nazionalisti, monarchici e di stampo fortemente antisemita che dopo pochi mesi ufficializzerà una collaborazione con Hitler in seguito ad una stretta di mano tra il Fuhrer e Petain.
Il Regime di Vichy imperverserà in Francia fino al 1944 , quando, dopo lo sbarco in Normandia, la Francia verrà liberata e tornerà ad essere un unico Stato sotto la guida di Charles De Gaulle con un Governo provvisorio della Repubblica Francese.
Marco Fontana

mercoledì 9 luglio 2014

Il più amato dagli Italiani. Sandro Pertini diventa Presidente della Repubblica (9 Luglio 1978)

Fa caldo, ma non troppo in quel 9 Luglio del 1978 quando Sandro Pertini varca la soglia del Parlamento dove, poco dopo, terrà il suo discorso di insediamento come nuovo Presidente della Repubblica. Corrono giorni difficili per l’Italia, ancora scossa dal caso Moro, un Paese che non sembra in grado di attraversare con le proprie gambe il buio corridoio senza fine di un periodo drammatico come pochi. Pur nella mia gioventù di bimbetto ingenuo mi ricordo del Pertini universalmente e trasversalmente apprezzato, sicuramente il Presidente più amato di tutti, grazie al proprio carattere aperto, la sua schiettezza genuina, la propria indubbia capacità di interpretare i sentimenti del Paese e di entrare nel cuore degli Italiani avvicinando le istituzioni al popolo. Un Presidente a suo modo innovativo che per la prima volta non si limita ad un ruolo grigio e notarile, ma di forte indirizzo ed impulso pur rimanendo in ogni occasione rispettoso delle procedure.
Non si può scindere il Pertini Presidente, dal Pertini uomo e dirigente politico che decenni prima contribuì in con immenso sacrificio allo sforzo di libertà dal regime fascista e che pose nel dopo guerra importanti e decisivi mattoni per quella casa Repubblicana in cui tutti abitiamo. Quello che rappresentò e che ci fece conoscere nel settennato di Presidenza non poteva non derivare dal carisma e dalla forza morale che esprimeva la sua figura di politico appassionato e confinato durante il regime e di eroico combattente durante la Resistenza. La sua personalità era intrisa dei principi che avevano ispirato i padri fondatori della Repubblica nati proprio dalla Resistenza, ed il suo credo non poteva che essere un profondo rispetto della fede politica altrui tanto quanto il suo totale rifiuto di tutte le ideologie che rinneghino la libertà di espressione. Un passo tratto dal discorso di insediamento può spiegare bene questa formazione e questi sentimenti. 
“…Non posso non ricordare i patrioti con i quali ho condiviso le galere del tribunale speciale, i rischi della lotta antifascista e della Resistenza. Non posso non ricordare che la mia coscienza di uomo libero si è formata alla scuola del movimento operaio di Savona e che si è rinvigorita guardando sempre al luminoso esempio di Giacomo Matteotti, di Giovanni Amendola e Piero Gobetti, di Carlo Rosselli, di Don Minzoni e di Antonio Gramsci, mio indimenticabile compagno di carcere….” 
Pertini era e rimase sempre un Socialista assetato di libertà e di giustizia sociale che, a suo avviso, costituivano un binomio inscindibile: non vi può essere vera libertà senza la giustizia sociale, come non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà. 
Forse, tra tanti episodi piacevoli legati alla sua Presidenza, dovremmo ricordarci dei pensieri che ci ha regalato, come monito sempre attuale. E proprio questo aspetto della giustizia sociale, ancora oggi, a maggior ragione oggi ci appare fondamentale da non dimenticare perché, come si domandava lo stesso Pertini, come si può considerare veramente libero un uomo che ha fame, che non ha un lavoro, che è umiliato perché non sa come mantenere i propri figli?
Luca Fontana

martedì 8 luglio 2014

Il caso Roswell (8 Luglio 1947)

Un comunicato stampa, forse ingenuamente veritiero, o forse semplicemente maldestro nella stesura, può generare ripercussioni impensabili con riflessi nella società e nella storia perduranti per decenni e decenni. L’autorevolezza della fonte ed il magico mistero che alcune domande senza risposta stuzzicano da sempre la natura stessa dell’uomo, possono generare un fenomeno mediatico di livello planetario anche in un epoca in cui al massimo si sfoglia un buon quotidiano o si ascolta un radio giornale. E’ quello che accadde l’8 Luglio del 1947 nel New Mexico quando la Roswell Army Air Field emise un comunicato stampa, immediatamente ripreso dai quotidiani locali, in cui veniva descritto il recupero di un oggetto volante non identificato da parte del personale militare del campo. Il misterioso materiale sarebbe stato rinvenuto nelle vicinanze di un ranch vicino la località di Roswell.
Dobbiamo però correre indietro con la mente di qualche giorno per raccontare quanto è, o potrebbe essere, accaduto. Roswell è una piccola, assolata ed isolata città. Qualche migliaio di abitanti per lo più allevatori e addetti militari legati alla vicina base aerea. Un luogo piccolo, un luogo isolato, un luogo in cui uno schianto avvenuto a pochi chilometri di distanza non può passare inosservato. E infatti fu così’. William Ware Mac Brazel è un simpatico signore che ogni giorno si occupa dei propri animali e gestisce il ranch di sua proprietà con burbero impegno. La mattino del 4 Luglio la routine di William viene movimentata quando, scrutando in lontananza, nota qualcosa di strano adagiato nei campi del suo ranch. Non riesce ad identificare immediatamente di cosa di possa trattare, forse per il sole già alto che gli disturba l’orizzonte, e si vede costretto d avvicinarsi. A quel punto tutto appare più chiaro a William. O forse no. Sono rottami. Rottami di metallo, lattice e altri materiali che di sicuro, pensa William, non dovrebbero trovarsi li. Un ammasso di asticelle, pezzi di metallo, che si avviluppano in strane contorsioni. “Cosa può essere accaduto?” di domanda Brazel. E poi ci sono quei strani racconti dei coniugi Wilxot che circolano in città da giorni, riguardanti avvistamenti di oggetti volanti nel cielo. Il dubbio pervade il nostro allevatore, che, zelante, si reca dalle autorità locali per informare lo sceriffo George Wilcox e mostrare i resti rinvenuti nella sua proprietà. Brazel conduce lo sceriffo, accompagnato probabilmente da un militare sul luogo del ritrovamento per raccogliere il materiale. I resti vengono analizzati. Pezzi di gomma, stagnola, asticelle di legno, nylon. La provenienza resta però ignota ed il successivo comunicato stampa di cui abbiamo già parlato, peraltro autorevole assai provenendo dalla stessa base dell’aeronautica di Roswell, non fa altro che gettare il primo sassolino di quella che è diventata una valanga che accora ci accompagna, con i misteri e le teorie complottistiche riguardanti i ritrovamenti di corpi di extraterresti, presunti filmati di autopsie, testimoni scomparsi, e tutto quell’alone di mitico mistero che grava attorno alla famosissima Area 51 di cui in tanti, forse troppi, attraverso film, libri, documentari, continuano a svelarci segreti e di cui, certamente, non sono in grado di raccontarvi alcunché io oggi in queste poche righe. 
Ovviamente la versione del ritrovamento di un oggetto volante fu negata immediatamente dal governo e dall'esercito statunitense lasciando spazio alla convincente spiegazione legata alla caduta di una tipologia di pallone sonda usato per determinare la direzione e la velocità dei venti in alta quota. Questo non fermò certamente ufologi e complottisti di tutto il mondo e nemmeno la ricerca di verità più accettabili e terrene. In questo ambito potrebbe risultare realistico ciò che fu scoperto negli anni Novanta a seguito di un'inchiesta parlamentare sul caso Roswell, dove l'aeronautica militare aprì un'indagine interna che portò all’attenzione il Progetto Mogul. A schiantarsi sui campi del New Mexico non fu una sonda meteorologica, bensì un modulo appartenente appunto a questo progetto, un'operazione segreta del governo che aveva lo scopo di monitorare le attività dell'Unione Sovietica e il suo possibile avanzamento nello sviluppo di armi atomiche. 
Questa spiegazione renderebbe plausibili le reticenze, i fraintendimenti, gli inganni governativi, allontanando però le stravaganti teorie ufologiche, disseminate di falsi storici e di prove non certo attendibili. 
Qui termina il mio racconto. Come interpretare le dichiarazioni di fior fior di militari, tra cui il responsabile di quel famoso comunicato stampa, che fino in punto di morte hanno parlato di strani corpi con grandi teste, e di astronavi a forma di uovo occultate negli hangar della base, ve lo regalo come compito per una serata di Luglio.
Luca Fontana

lunedì 7 luglio 2014

Pinocchio compie 133 anni (7 Luglio 1881)

Il 7 luglio 1881 esce la prima edizione del romanzo intitolato "Le avventure di Pinocchio". Sarà un successo planetario. Racconta la storia di un burattino di legno che voleva diventare un bambino vero. Ed, essendo una favola, alla fine, tra mille peripezie, ci riesce. Ma perchè questa fiaba per bambini, dopo 133 anni, continua a riscuotere tutto questo successo? Me lo chiedo da quando ho memoria; tra tutte le favole che ho letto, sicuramente Pinocchio non è mai stata la mia fiaba preferita. Io preferivo le favole con le principesse, perchè, come tutte le bambine, anche io mi sentivo una principessa. Poi cresci e capisci che i rospi, anche se li baci, restano rospi e inizi un po' a detestare quelle favole perchè non ti rispecchiano più. Ed è stato allora che ho iniziato a capire dov'è nascosta la forza del racconto di quel burattino che da 133 anni affascina i grandi molto più dei piccini. Perchè quando cresci capisci che Pinocchio sei tu: tutti noi abbiamo un desiderio, vogliamo diventare un medico, un avvocato, un infermiere, un attore; nessuno di noi nasce quello che, solo con la volontà, è destinato a diventare. E come Pinocchio, anche noi, per realizzare il nostro sogno, o almeno il nostro destino, spesso rischiamo di perderci, seguendo il gatto e la volpe, Lucignolo o Mangiafuoco. Proprio come Pinocchio anche noi spesso mentiamo, a noi stessi, agli altri, per darci giustificazioni, perchè diventare quello che vogliamo, quello che siamo destinati ad essere, non è facile. Ma alla fine, ascoltando la propria coscienza, circondati dall'amore di chi, nonostante tutto, c'è sempre, se non ci arrendiamo anche noi diventiamo quello che decidiamo di essere. È in tutto questo che è nascosta la magia di Pinocchio. Quindi auguri piccolo burattino...con le tue scarpe di zuppa e panbagnato...come dice una canzone...come mi cantava quella persona che mi ha portato nel paese dei balocchi fingendo un amore mai esistito.
Caterina Valcarenghi

domenica 6 luglio 2014

Morte di Goffredo Mameli (6 Luglio 1849)

Il 6 Luglio 1849 morì a Roma, a soli 22 anni, Goffredo Mameli, noto a tutti per essere l’autore del nostro Inno Nazionale.
Mameli perse la vita in seguito ad una ferita infetta che si procurò durante l’assedio di Roma, ultimo atto della Seconda Repubblica Romana, combattendo nelle truppe garibaldine sul Gianicolo contro l’esercito francese.
Vita breve, ma eroica quella di Goffredo Mameli, fu un personaggio di spicco del Risorgimento italiano
A soli 20 anni scrisse il Canto degli Italiani, più noto come Inno di Mameli, che nel 1946 diverrà Inno ufficiale della nostra Nazione.
“Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò” (da l’Inno di Mameli)
Marco Fontana

sabato 5 luglio 2014

Nasce il Bikini (5 Luglio 1946)

E’ arrivata l’estate e con essa è arrivata la prova costume. Quale donna prima di andare in spiaggia non sfodera dagli armadi i propri costumi e, pur avendo un’ampia scelta di modelli, non si reca in qualche negozio per comprare quello più alla moda nell’anno in corso? Nelle spiagge affollate tutte le donne, quantomeno fino ad una certa età, lo indossano, ma poche di loro conosco la sua storia.
Ovviamente sto parlando del bikini, o “due pezzi”.
Il nome deriva dall’Atollo di Bikini, nelle isole Marshall dell’Oceano Pacifico, sede di esperimenti atomici che fecero molto scalpore negli Stati Uniti, esattamente come il lancio sul mercato del costume che copriva solo seno, pube e glutei, che avrebbe avuto effetti esplosivi nella società.
Il primo bikini moderno fu introdotto ufficialmente il 5 Luglio 1946, inventato da un sarto francese, Louis Reard, a Parigi.
Reard fece fatica a trovare una modella che osasse indossare per prima un costume così “piccolo”. Convinse la spogliarellista del Casino de Paris, Micheline Bernardini.
Il successo non arrivò subito, negli Stati Uniti per esempio ci vollero quindici anni perché il bikini fosse accettato. Poi il costume iniziò ad essere indossato da importanti attrici al cinema e così divenne popolare ed utilizzato dalla massa.
Il 5 Luglio 1946 rappresenta comunque una svolta, un cambiamento nella società moderna, anche, come testimoniano reperti archeologici quali urne, affreschi o mosaici, già all’epoca dei Greci e dei Romani le donne utilizzavano vestiti molto simili al bikini…allora non faceva certo scalpore.
Marco Fontana

venerdì 4 luglio 2014

Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti d'America (4 Luglio 1776)

"...Pertanto, noi, rappresentanti degli Stati Uniti d’America, in Congresso Generale riuniti, facendo appello al Supremo Giudice del mondo per la giustezza delle nostre intenzioni, nel nome e per l’autorità della buona gente di queste colonie, solennemente e pubblicamente dichiariamo che queste colonie unite sono e per diritto devono essere Stati indipendenti e liberi; che sono sciolti da qualsiasi obbligo di fedeltà alla Corona inglese e che tutti i legami politici tra esse e lo Stato di Gran Bretagna è e deve essere del tutto dissolto e che, come Stati indipendenti, esse hanno pieni poteri di muover guerra, concludere pace, trattare alleanze, stabilire commerci e fare tutte le altre azioni e cose che gli Stati indipendenti possono fare per diritto.
A sostegno di questa Dichiarazione, affidandoci fermamente alla protezione della Divina Provvidenza, reciprocamente ci impegniamo con le nostre vite, le nostre fortune ed il nostro sacro onore." (da “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America)
La sera del 4 Luglio 1776 Thomas Jefferson e altri 55 firmatari di tutte le 13 colonie della costa atlantica americana firmarono la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America dichiarando la loro totale indipendenza dalla Gran Bretagna.
Il 4 Luglio, da allora, è giorno di festa nazionale, giorno dell’Indipendenza.
La Dichiarazione fu scritta, su carta di canapa nella sala congressi di Philadelphia, dalla cosiddetta Commissione dei Cinque (Jefferson, Adams, Franklin, Livingston e Sherman) e firmata dai 55 Padri Fondatori.
Non bisogna confondere la Dichiarazione d’Indipendenza con la Costituzione, che verrà redatta in seguito. L’obiettivo era di dare forza alla rivoluzione già in corso (che terminerà 7 anni dopo), incoraggiando l’aiuto di potenze europee rivali della Gran Bretagna, come per esempio la Francia.
La prima parte della Dichiarazione parla di diritti dell’uomo e legittima la rivoluzione, la seconda parte accusa apertamente Re Giorgio III d’Inghilterra e la terza ed ultima parte è la vera e propria dichiarazione d’indipendenza.
L’originale della Dichiarazione d’Indipendenza è esposto a Washington, nei National Archives. Ormai quasi illeggibile, ma scolpita nei cuori di ogni Americano.
Marco Fontana

giovedì 3 luglio 2014

La morte di Jim Morrison (3 Luglio 1971)


43 anni fa moriva a Parigi Jim Morrison. Era il 3 Luglio 1971, aveva solo 27 anni, ma il cantautore americano si era già aggiudicato un posto nell’Olimpo della musica.
Leader dei Doors, Jim Morrison divenne per milioni di giovani un simbolo della rivoluzione culturale degli anni Sessanta.
Con la morte non finì la sua storia, che prosegue al cimitero Pere Lachaise a Parigi, dove ogni giorno la sua tomba è meta di pellegrinaggio per moltitudini di fan o semplicemente curiosi turisti. Sulla lapide c’è un epitaffio in greco antico che significa: “Fedele al suo spirito”.
Intorno a personaggi come Jim Morrison non possono non crearsi leggende. Dopo la sua morte ci si è sbizzarriti in tal senso.
Si dice che sia ancora vivo e abbia inscenato la morte per scappare dalla pesante pressione della popolarità, si dice che sia fuggito in Africa, c’è addirittura chi sostiene che fu ucciso in un complotto dalla CIA per le sue idee contro la guerra del Vietnam. Nel corso degli anni sono state fatte molte congetture, ma l’unica cosa certa è che il 3 Luglio 1971 Jim Morrison è stato trovato privo di vita nella sua vasca da bagno. Arresto cardiaco, possibile infarto la versione ufficiale, overdose da eroina quella ufficiosa.
In fondo cosa importa, bello pensare che in questo momento da qualche parte nel Mondo, un anziano uomo di 71 anni, se la ride mentre i suoi fan lo omaggiano nell’anniversario della sua morte.
“Siamo buoni a nulla, ma capaci di tutto” (Jim Morrison)
Marco Fontana

mercoledì 2 luglio 2014

La nave Amistad (2 Luglio 1839)

Il 2 Luglio 1839 una nave spagnola chiamata "Amicizia" diventò simbolo per l'abolizione alla schiavitù.
Sulla Amistad (Amicizia) un gruppo di schiavi africani si ribella e prende possesso della nave. Verranno catturati tutti non molto tempo dopo, ma il loro ammutinamento resterà comunque simbolo di libertà.
Durante il XIX secolo era abituale il trasporto di schiavi dall'Africa a l'Avana, ovviamente in pessime condizioni igieniche e malnutriti.
Sulla Amistad viaggiavano 56 schiavi provenienti dalla Sierra Leone.
Il 2 Luglio, capeggiati da Sengbe Pieh i prigionieri riuscirono ad impadronirsi della nave avendo la meglio sull'equipaggio.
Utilizzarono i marinai che non uccisero per dirigersi verso l'Africa, ma non fu così. La nave non fece mai rotta verso il continente africano, ms costeggiò gli Stati Uniti finché non fu abbordata e liberata dalla nave americana USS Washington. Gli schiavi vennero catturati e successivamente processati.
La loro libertà durò poco, ma simbolicamente diedero la scossa verso l'abolizione della schiavitù.
Riguardo alla storia dell'Amistad e del seguente processo agli schiavi è stato girato un bel film, diretto da Steven Spielberg.
Marco Fontana

martedì 1 luglio 2014

La Stazione Centrale di Milano (1 Luglio 1931)

L’1 Luglio 1931 il ministro delle comunicazione Costanzo Ciano tagliò il nastro che inaugurò la Stazione Centrale di Milano che prese il posto di quella in piazza della Repubblica costruita nel 1864.
La prima pietra venne posata dal re Vittorio Emanuele III nel 1906, prima ancora che venisse scelto il vero e proprio progetto e solo nel 1912, l'architetto Ulisse Stacchini vinse il concorso per la costruzione.
Egli basò il proprio progetto sulla base della stazione di Washington, ma i lavori procedettero molto a rilento. Durante il Ventennio fascista si ebbe una nuova spinta ed il progetto subì lievi modifiche per far apparire la stazione ancor più monumentale in modo da celebrare l'architettura monumentale fascista.
il 1° luglio 1931 avvenne finalmente l'inaugurazione ufficiale, dopodichè la stazione è rimasta pressochè simile, salvo alcuni ovvi lavori di adeguamento ed ammodernamento, come quelli realizzati dal 2005 al 2010.
Oggi la stazione conta su 24 binari ed ha un flusso giornaliero di passeggeri di circa 300000 al giorno che possono contare su oltre 500 treni giornalieri, vi si incrociano 7 linee ferroviarie ed ha una funzione di nodo di interscambio fra i sevizi ferroviari e tutti i servizi di trasporto pubblico locale (metropolitana, tram, taxi ed autobus urbani ed extraurbani).
“ Fu per questo che dopo aver contribuito a sconfiggere in guerra la inciviltà teutonica l'Italia riprese ad attuare un'opera quasi «hohenzolleriana» quale è la Stazione Centrale di Milano” (De Finetti)
Marco Fontana