Palermo, la calda estate del 1982 è ancora lontana dallo sfiorire quando due mani sicure, ma tremanti per l’indignazione, affiggono su di un muro in via Isidoro Carini un cartello recante una scritta semplice, cruda, terribile. “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. Non si è mai saputo di chi fossero quelle mani, ma conosciamo bene quel muro ancora sporco di sangue. La scena si sposta proprio in quello stesso punto, la sera precedente, il 3 settembre alle ore 21.15. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è appena uscito da quello che da 100 giorni è il suo luogo di lavoro, la prefettura, per andare a cena con la moglie Emanuela Setti Carraro. Lui ed Emanuela sono seduti dentro la loro A112. E’ lei al volante. Un'altra auto guidata dall’agente di scorta Domenico Russo li segue a brevissima distanza. Imboccano prima via Cavour, girano in via Crispi e, dopo aver costeggiato il porto, risalgono verso piazza Politeama. Ecco via Carini. Mentre la percorrono non si accorgono del sopraggiungere di due auto e una moto che, affiancandosi alla A112 aprono il fuoco a colpi di kalashnikov. Si accaniscono, vogliono essere sicuri di non fallire. Li uccidono sul colpo. I 100 giorni da Prefetto di Palermo si concludono così, con lo spegnersi di tre vite e la battaglia contro la mafia che sembra irrimediabilmente perduta. Un passo indietro. Dalla Chiesa arriva a Palermo il 30 aprile, con procedura d'urgenza, poche ore dopo l'uccisione del segretario siciliano del Pci, Pio La Torre. La mafia è al culmine della sua violenza e da anni inonda la Sicilia di vittime. Il teorema sembra semplice. Se il Generale ha ottenuto brillanti risultati contro il terrorismo potrà ottenere gli stessi risultati contro Cosa Nostra. Pur inizialmente riluttante, Dalla Chiesa si convince anche grazie alla promessa governativa di poteri speciali. Il generale sarebbe diventato il super prefetto. Tuttavia di magico e avventuroso c’è poco o nulla nella Sicilia che si presenta dinanzi al Generale Dalla Chiesa che si rende conto ben presto di non essere l’eroe di un fumetto. I super poteri rimangono tali solo sulla carta. Carlo Alberto Dalla Chiesa viene lasciato sostanzialmente solo e si lamenta più volte per la carenza di sostegno da parte dello Stato. La sua frase "Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì" ci racconta molto, forse troppo. Ad Agosto in un intervista con Giorgio Bocca lancia attraverso i media il proprio grido d’allarme denunciando la mancanza di quei poteri speciali tanto promessi, ma mai arrivati da Roma. Un delitto, quindi, che nasce e trova terreno fertile in quel clima di solitudine ed isolamento che altre volte abbiamo visto, prima e dopo. Pochi giorni dopo l’agguato, il 5 settembre, durante i funerali, il cardinale di Palermo Pappalardo pronuncia parole durissime, citando un famoso passo di Tito Livio: " Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata. Questa volta non è Sagunto, ma Palermo! Povera Palermo nostra". Al termine dei funerali volano insulti, urla e perfino monetine all'indirizzo dei rappresentanti dello Stato e dei politici. Una reazione fatta di rabbia, orgoglio, indignazione, ma anche molta stanchezza di tanta gente che in quel prefetto aveva riposto la propria speranza. Speranza che nei momenti bui che ciclicamente di ripetono e si ripeteranno, sembra spegnersi. Sembra morire per sempre. Forse era questo lo sconvolgimento provato da quelle mani mentre appendevano il famoso cartello. Ma no, mani tremanti, non ve lo concedo. La speranza, almeno quella, non deve morire mai.
Luca Fontana
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