Quando muore il 14 Giugno del 1837 Giacomo Leopardi è un uomo minato dalle malattie. Il suo fisico gracile seppur ancora giovane non riusciva più da tempo a difendersi, ma la sua mente ed il suo cuore ci hanno lasciato in regalo poesie, pensieri, opere filosofiche come poche volte ci è dato il permesso di ricordare. Si tende a definire Giacomo Leopardi come un poeta, un filosofo, in definitiva un uomo, pessimista. E’ vero. La famosa teoria “del pessimismo cosmico”, architrave del suo pensiero e delle sue opere, è riscontrabile con tutta l’evidenza possibile da certo periodo della propria vita, quando i mali che lo affliggevano diventarono sempre più opprimenti con il progressivo aggravarsi delle condizioni di salute. Il pessimismo Leopardiano è strettamente legato come in un indissolubile matassa ad una precedente produzione filosofica che si sostanzia nella “teoria del piacere”. Nel corso della propria vita l'uomo tende a ricercare “il piacere” che per Leopardi è sinonimo di un piacere infinito teso soddisfare desideri illimitati che l’immaginazione, e solo essa, ammaliatrice e crudele come la natura, regala come mere illusioni. Un piacere non conseguibile durante l’esistenza di un uomo in cui nasce e cresce un senso di insoddisfazione perenne che ne pervade la vita. Così come il piacere non è conseguibile, la sofferenza non è evitabile in quando veicolo necessario e implacabile con cui l’uomo è costretto a convivere proprio nel vano tentativo di inseguire l’illusoria felicità. La causa dell'infelicità umana è data dal contrasto tra il bisogno dell'individuo di essere felice e l’impossibilità di esserlo. La teoria del piacere emerge nitida e accogliente in uno dei canti, che è tra i miei preferiti.
“Il Sabato del villaggio” Il canto descrive la vita di un paese il sabato pomeriggio con gli abitanti impegnati nei preparativi per la domenica , il giorno di festa che tutti pregustano. Tutti i protagonisti trepidano per il riposo del giorno seguente, ma sbagliano. Il poeta chiarisce che in realtà è proprio il sabato è il giorno più bello della settimana, con i suoi preparativi, la sua attesa. L’attesa del piacere che è essa stessa piacere, anzi è il vero e unico piacere conseguibile. La domenica non porterà con se la gioia tanto attesa, ma porterà infiniti momenti di noia, in cui tutti, tristemente, penseranno agli impegni della settimana seguente. Traslando i versi dalla domenica all’età adulta Leopardi ci ricorda che essa, tanto desiderata durante la giovinezza, regalerà al’uomo dolore, infelicità e delusioni.
in sul calar del sole,
col suo fascio dell'erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dì della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch'ebbe compagni dell'età più bella.
G ià tutta l'aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
giù da' colli e da' tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore:
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l'altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s'affretta, e s'adopra
di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
(G. Leopardi, 1829)
Luca Fontana
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